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La conciliazione famiglia-lavoro delle donne migranti

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Cecilia Muñoz, che é socia del Museo delle Donne, ha partecipato al Thrive Festival a Brunico, un festival dedicato dell’empowerment femminile, con un intervento sulla conciliazione famiglia-lavoro delle donne migranti.

Cecilia Muñoz, nel suo lavoro si dedica da molti con passione a raccogliere e divulgare narrazioni mettendo il risalto le parole delle persone che incontra. Grazie alle narrazioni riesce a dare un significato profondo e una dimensione quasi plastica a fenomeni sociali significativi. Con i suoi racconti presi a prestito dalle molte donne che ha incontrato ci fa entrare con semplicità in realtà anche molto complesse. È come camminare in punta di piedi in una dimensione privata e uscire con idee e informazioni che riguardano invece dimensioni sociali, strutturali e pubbliche.

Abbiamo intervistato Cecilia, sul tema della conciliazione famiglia-lavoro delle donne migranti.

Cecilia, tu hai raccolto molte storie personali di donne migranti, grazie al tuo lavoro di educatrice e formatrice. Hai poi una capacità particolare di fare parlare le persone apertamente, e raccogliere varie voci. Per noi la voce di una donna è spesso la voce di molte altre, non in un’ottica di curiosare nel privato in modo irriverente ma per capire un contesto sociale di cui siamo responsabili tutti e tutte, e per il quale chiedere dei cambiamenti.

Parli spesso di uno stato di particolar fragilità che le donne migranti vivono. Ci puoi spiegare cosa intendi?

Cecilia:
In quanto donne (spesso madri), noi donne immigrate siamo esposte a particolari situazioni di vulnerabilità e a peculiari situazioni di marginalizzazione. Rispetto alle donne autoctone, la realtà quotidiana pesa ancora di più sulle donne lavoratrici immigrate in termini di responsabilità di cura e di organizzazione del lavoro familiare. Tra noi vi sono donne che non riescono a formarsi (imparare la lingua locale o intraprendere nuovi percorsi formativi) perché la responsabilità dei figli e la casa ricade soltanto su di loro.

“La giornata di noi, donne immigranti, è molto più breve di quella delle donne autoctone. Intendo le ore che abbiamo a disposizione per noi, per lavorare, fare un corso di formazione, o semplicemente per il nostro benessere. La nostra giornata si limita all’ore che i bambini trascorrono nelle scuole materne o nella scuola elementare. Niente più, niente nonni (sono lontani in nostri paesi di provenienza), niente baby sitter (non possiamo permettercele). Quello che non hai fatto in quelle ore da lunedì a venerdì non si può più fare”

Ana Maria 30 anni, del Perù.

“Arrivata in Italia ho partorito in solitudine, non avendo famiglia, ho cercato di conoscere altre mamme che come me, erano sole. Quando non passa il bus, chiamo la mia vicina che di casa. Anche lei è straniera e mi prende i bambini da scuola. Tante volte ci aiutiamo tra di noi per lasciare i bambini più piccoli, i più grandi restano da soli a casa”

Khaula, 35 anni del Marrocco.

E nel mondo del lavoro?

Cecilia:
Le problematiche delle donne migrante lavoratrici sono diverse. Nel mondo del lavoro, le donne immigrate rimangono segregate quasi esclusivamente nel settore dei servizi assistenziali e di cura. Da una lettura attenta del mercato del lavoro, emergono fenomeni quali: lavoro dequalificato, part time non reali con carichi di lavoro maggiorati rispetto a quanto stabilito per contratto, la disparità del livello retributivo rispetto agli uomini, sotto occupazione e sotto inquadramento, precarietà e mancanza di prospettive a lungo termine, contratti con prestazioni occasionali o a chiamata.

Penso che la narrazione di Shepresa esprima tutto ciò.

A volte mi chiedo cosa farò quando avrò 60 anni non avrò più la forza per pulire tutto un piano di albergo in un’ora e mezza o ad avere tre lavori come ho adesso che sono giovane. Cosa sarà del mio futuro?

Shepresa (27 anni, Albania)

Come stanno le donne migranti che hanno studiato nei loro paesi?

Cecilia:
Tra di loro vi è spesso un forte senso di frustrazione. Molte donne hanno delle laure extraeuropee non valide in Italia e non trovano uno sbocco lavorativo in un ambito simile alla loro formazione.
Se guardiamo i numeri, dati Istat 2021 alla mano, nonostante il più alto tasso di inattività, le donne straniere sono spesso più istruite degli uomini. Il numero delle laureate è doppio rispetto a quello dei laureati e maggiore è anche il numero di diplomate. Le donne hanno mediamente un grado di istruzione più alto, ma sono meno incluse nel mondo del lavoro, in modo più severo rispetto alle cittadine italiane. Questo conferma il ruolo dell’intersezionalità: essere donne e straniere crea una condizione di doppia fragilità.

Quando arrivi in Italia, sembra che riparti da zero. Tu il tuo passato si cancella. La valigia personale della migrazione si fa leggera. Porti solo il tuo corpo. I tuoi studi non servo a nulla perché qui i titoli che sono extra-europei non hanno nessun riconoscimento. Nel mio caso dovrei ricominciare l’università perché i miei programmi di studio sono totalmente diversi nel mio paese.  Dal 2000 ho potuto lavorare solo nel settore privato o nel terzo settore (associazioni) con contratti, cococo, lavori a progetti, e lavori occasionali quelli che stabiliscono ORA LAVORATA, ORA PAGATA. Questa è la realtà di noi donne straniere! Quando sei ammalata non guadagni, hai giorni di ferie ma non pagate. Quando sono rimasta in cinta sono stata a casa senza stipendio. È l’apporto per la pensione con questi stipendi sono molto bassi. La parola è “precariato infinito”.

Giovane donna (Perù)

Porti l’esempio delle donne che fanno le badanti, quale è spesso la loro situazione?

Cecilia:
Le badanti sono spesso donne completamente invisibili che non sanno cosa sarà del loro futuro e che hanno paura della povertà durante l’anzianità. Non hanno neanche un posto di ritrovo per trascorre le loro giornate di riposo. Vi sono poi molte donne badanti che migrano per sostenere economicamente le proprie famiglie rimaste al paese. Per loro la conciliazione lavoro-famiglia è nulla. Non esiste. Spesso la loro struttura familiare si è rotta nel tempo. La paura della solitudine e della povertà da anziane è molto forte anche nelle loro storie.

Quando sono arrivata pensavo che sarei stata solo per un periodo lavorando come badante in Italia. Sono passati già 10 anni e ora ho 55 anni. Non ho potuto vedere i miei figli diventare adolescenti, erano ancora bambini quando sono venuta a Merano. Almeno sono contenta di aver potuto inviare i soldi affinché loro possano studiare. Non so fino a quando sarò qui. Tornerò a casa o continuerò a lavorare fin che loro vadano all’università? Pensare a una pensione è un sogno. Ho pochissimi contributi.

Jelena 55 anni Moldava.

Il tempo si è fermato al momento della mia partenza e, quando anni dopo, sono tornata in Romania, ho ritrovano tutto stravolto: i miei figli non mi riconoscevano più come mamma e autorità. Al mio ritorno a Bolzano, sono crollata nella tristezza più profonda. I soldi che li inviavo non erano sufficienti per dimostrare quanto bene gli voglio!

Viorica 42 anni di Romania

 

Ringraziamo Cecilia Muñoz, per l’intervista.

Vi ricordiamo che “ätsch bätsch – der feministische Podcast aus den Alpen”, è stata pubblicata da poco una puntata con un’intervista a Cecilia Muñoz su questo tema specifico.

 

Le questioni che Cecilia Muñoz presenta in forma di narrazione al pubblico, sono descritte e validate da un’accurata ricerca dei dati riportati da fonti quali l’Istat oppure in testi scientifici, vale a dire tesi di laure e altri saggi.

Piccola bibliografia: il mercato del lavoro tra minori opportunità e maggiore partecipazione ISTAT cap3.pdf (istat.it), https://www.istat.it/it/archivio/287778
MADRI IMMIGRATE, Strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia, tesi di Laurea magistrale, Ambra Chiarotto, a.a. 2012-2013

 

 

 

 

 

 

 

 

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