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If I can’t dance, it’s not my revolution!

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L´appassionata di musica Dj Trippy fa parte della ormai famigerata Collettiva Elettronika, un progetto di djing trans femminista. Come dj donna lesbica ci racconta delle difficoltà di farsi strada in un ambito prettamente maschile, ma soprattutto di come la musica sia un veicolo politico che permette di dare visibilità alle lotte di persone sottorappresentate.

Come hai scoperto questa passione e da quanto fai la dj?

La musica è sempre stata una grande passione, fin da molto giovane ho sempre suonato in band, suonavo chitarra e batteria. Poi, c’era questa amica che metteva dischi, mi piacevano le sue serate, mi piaceva la forza che trasmetteva una donna dietro la consolle, e quando il locale (il Cassero) mi propose di suonare lì una sera presi la palla al balzo. Era il 2000 e dal Cassero iniziai a girarmi i localini e i club di Bologna. Poco dopo assieme ad altre amiche lanciammo un progetto per promuovere il djing al femminile. Nel 2002 organizzammo la prima convention di dj donne, Shevilization. Erano i tempi dei primi Ladyfest in Italia e questo voleva essere un´iniziativa per promuovere il genere, applicata al djing. Da lì non ho più smesso, e oltre a mettere musica in prima persona come Trippy, organizzavo o promuovevo spazi di visibilità e socialità per le donne, la comunità lesbica e queer cittadina, e attualmente faccio parte della Collettiva Elettronika, un progetto di djingtransfemminista.

Michela Sartini Photography
Ti permette di sopravvivere?

Io nella vita ho sempre fatto anche altro, non ho mai fatto la dj di professione. Quando ho iniziato a mettere musica, però, avevo un piccolo negozio di dischi, il tipico negozietto di quartiere. E i dischi nei primi anni 2000 non portavano soldi, perché da poco era arrivato napster ed era un momento di download selvaggio. Così iniziai a fare serate perché avevo tanti dischi e avevo necessità di guadagnare per poter tenere aperto il negozio, che per me era una sorta di luogo di promozione culturale per il quartiere. E così ho fatto, suonando in diverse serate in modo da poterci vivere e tenere aperto il negozio. Quindi si, certamente è possibile mantenersi con la musica anche se in Italia è più difficile che altrove, l’importante è avere varie serate fisse al mese oppure essere ospite fissa in un locale.

Che consiglio daresti alle giovani che si avvicinano al djing e ne vogliono fare una professione?

Prima di tutto spaccate, diventate davvero brave e guadagnatevi il rispetto dei colleghi maschi, perché per una donna gli standard sono più alti. Iniziate a produrre la vostra musica oltre a fare dj set, e da li costruitevi una specificità sia nel genere musicale, che davanti al pubblico che richiamate, promuovetevi bene e fatevi anche pagare bene, perché non è più come una volta, quando i dischi ai dj li compravano le discoteche, oggi siamo noi a comprarci la musica che mettiamo, oltre ovviamente alla strumentazione, e tutto ciò ha un costo.

L’idea di un collettivo com’è nata? Perché serve una collettiva elettronika?

La collettiva è nata da un´esigenza comune di creare uno spazio di visibilità per dj donne e trans, in un ambito tipicamente maschile. Alcune di noi venivano da altri gruppi o esperienze simili, altre da percorsi più distintamente politici. In un secondo momento abbiamo fatto una riflessione sugli spazi e i posti dove suonare. Per le nostre serate abbiamo sempre scelto posti con una politica safe space (in passato più difficili da trovare) e anche lì abbiamo cercato di caratterizzare il luogo e sensibilizzare il pubblico, con cartelli, slogan, cose buffe e colorate, e tanto tanto glitter. Certo se ci trovavamo a suonare a una festa di NUDM il problema non si poneva, nei centri sociali come XM o atri locali bolognesi invece sì e molto.

Michela Sartini Photography
I vostri obiettivi e contenuti sono cambiati nel tempo?

Qualcosa si è cambiato. All’inizio eravamo meno conosciute e non avevamo la capacità economica per invitare alle nostre serate ospiti e performer da fuori, ora invece facciamo serate più ricche dal punto di vista della proposta culturale. Poi una cosa molto bella che facevamo all’inizio erano workshop di djing, per aiutare chi voleva iniziare a suonare a orientarsi nella scelta della strumentazione e insegnare le basi tecniche. E poi subito dopo il workshop, organizzavamo delle serate per far suonare queste persone. Era un format specifico, si chiamava Whereismycue? (trovare il cue è una delle basi del djing). Purtroppo con il covid questa iniziativa si è interrotta, però in città ora ci sono tantә nuovә dj che hanno iniziato con noi e questo mi rende molto felice.

Per il resto, però, a livello più profondo: obiettivi e contenuti sono gli stessi. Fare politica attraverso la creazione di spazi di visibilità, di safeness, e la creazione di contenuti culturali, come si diceva prima. E anche supportare direttamente obbiettivi politici con feste benefit, portare istanze politiche all’interno degli spazi, portarci corpi non conformi, dare visibilità ad altri gruppi politici all’interno delle nostre serate, ad esempio le “mujereslibres”, “Non una di meno” ecc. A giugno abbiamo fatto un carro nostro al queer pride di Bologna, e li abbiamo voluto dare visibilità alle lesbiche, che negli ultimi anni sono spesso al centro di molte polemiche. La musica è un mezzo potentissimo e immediato per avvicinare diverse realtà, caratterizzare degli spazi e dare visibilità, e certo facciamo tutto questo divertendoci. Una frase presa da un film che ci descrive bene è: If i can’t dance it’s not myrevolution!

Avete riscontrato resistenze o appoggio nella vostra citta (Bologna)?

Sicuramente più appoggio che resistenze, soprattutto nella nostra comunità e all’interno del movimento. Con il tempo l’appoggio si è allargato in città e fuori. Le resistenze invece sono state meno, e sono venute soprattutto dai locali che non colgono o non valorizzano la portata politica del nostro progetto. Forse una resistenza potrebbe essere il non aver avuto abbastanza riconoscimento economico, ma qui il discorso si complica, perché questa potrebbe anche essere un po’ una nostra resistenza interna interiorizzata.

Quanto sono incoraggiate le dj donne in Italia?

Credo che ci sia un problema a livello globale, poi l’Italia nel mondo occidentale resta un paese tradizionale e tradizionalista per cui le donne fanno spesso un po’ più fatica. Credo che si, ci sia ancora discriminazione sulle donne: dagli art director dei locali che ti considerano meno di un uomo, alle persone che in consolle a fine serata ti vengono a dire, fammi mettere un pezzo, ai quali io rispondo, se fossi uomo non mi faresti questa domanda e lì spesso scatta la polemica. Credo anche che la discriminazione viaggi anche sulla dimensione dell’aspetto fisico: le top djs in Italia ma anche altrove sono belle, con fisici da paura e molto femminili. Negli ultimi decenni però le cose sono anche molto migliorate, all’inizio eravamo poche e oggi il numero di ragazze che mettono musica, producono o suonano in delle band è raddoppiato. È tutta una questione di modelli, come io ho iniziato grazie a un’amica che faceva la dj, così è anche per le giovani generazioni, e vent’anni fa i modelli scarseggiavano oggi ce ne sono di più per fortuna e noi diamo il nostro contributo.

Siete connesse ad altri collettivi simili, femministi lesbici?

“Malefemme”, che è un collettivo femminista di artiste di Torino, “Witches are back” di Roma e “Tomboys dont’ Cry”, che sono djs lesbiche di Milano.

Michela Sartini Photography

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Trippy

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Intervista: Sarah Trevisiol

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