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Una nonna in manicomio. Una storia tra sofferenza e silenzio

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Le microstorie relative alla Seconda guerra mondiale e al dopoguerra hanno rappresentato un tessuto storico in grado di espandersi in ogni ambito famigliare e strato sociale, tanto da costituire le voci che sono poi veicolate verso ciò che definiamo memoria privata e collettiva. Entrambe si sono tramandate dai sopravvissuti, di ogni genere e origine, ai loro parenti più prossimi come i figli, anche loro magari esistenti ai tempi dei fatti, e poi ai loro nipoti che invece erano nati dopo il conflitto e che, se fortunati, avevano poi “riletto” quelle storie nei manuali di storia a scuola.

Ci sono vicende tuttavia che sono considerate, dalla società dagli anni ’60 ad oggi come raccontabili, degne di essere trasmesse e impresse nella memoria ad uso pubblico mentre altre dovevano rimanere circoscritte tra le mura domestiche per via dei tremendi condizionamenti culturali che avevano determinato quell’evento.

La cultura maschilistica italiana, nata e affermatasi prima e durante il Ventennio fascista, collocava la condizione della donna ai margini della società ma non tutte accettarono questa situazione e dunque si contrapposero, come potevano, alla società dominante e dominatrice che le volevano a servizio dell’uomo.

La repressione si esprimeva in molti modi e a completare queste vere e proprie destituzioni, c’era la collocazione ordinata nelle strutture manicomiali in cui si effettuava un trattamento di tipo coercitivo e punitivo che attribuiva alla stessa donna la responsabilità per quella prescrizione.

Il secondo conflitto mondiale aveva costretto molte donne a subire diverse condizioni quale l’allenamento del marito, la perdita dei propri familiari, dei propri figli e spesso e volentieri anche della propria casa in seguito ai bombardamenti. Questi fattori avevano contribuito, nel dopoguerra, a segnare profondamente la condizione psicofisica delle donne. In quel periodo infatti non esistevano strutture in grado di accoglierele donne vittime del conflitto pertanto il trattamento manicomiale sembrava essere l’unica soluzione.

Una vittima degli orrori della guerra e del dopoguerra fu mia nonna paterna, Maria F., che in seguito alla perdita di tre figli e del marito cominciò a lasciarsi andare e a non prendersi più cura né di sé né degli altri figli e per questo fu rinchiusa in un manicomio gli ultimi cinque anni della sua già difficile esistenza. Tra il 1959 e il 1964, le venne diagnosticato l’alcolismo cronico inteso dunque come “patologia” e non come conseguenza della sua sofferenza e del suo dolore.

Tutta questa amara microstoria fu racchiusa in un silenzio custode di una sorta di vergogna familiare che non doveva essere tramandata.

Su di lei cadde un veto interno alla famiglia che non doveva essere violato dalle successive generazioni. Si trattava di un muto recinto, regolato da un codice interno alla famiglia escluso dalla storia genealogica. Rimase sempre, per la sottoscritta, sua nipote, una sorta di storia sospesa priva del giusto riconoscimento identitario.

Attraverso la generosa cartella clinica relativa a quegli anni, ho potuto invece comprendere la sua umanissima conduzione, comune a chissà quante altre dell’epoca e di oggi, vittima anche lei del tempo storico inflitto alle donne, a cui avrei voluto offrire più gentilezza, accettazione e pietas.

Antonella Tiburzi

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