Il romanzo “Il nastro rosso” di Lucy Adlington, uscito nel 2017, racconta la storia di una sartoria situata nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Anni prima, l’autrice ne aveva sentito parlare, ma, nonostante varie ricerche, non era riuscita a raccogliere nessuna testimonianza diretta.
Soltanto dopo l’uscita del libro, che ebbe molto successo, le arrivarono diversi messaggi con contenuti simili: erano le famiglie di alcune prigioniere di Auschwitz che si erano riconosciute nel suo romanzo. Grazie a questi contatti, le fu finalmente possibile incontrare una testimone diretta, l’ultima sopravvissuta di quel gruppo: la slovacca Berta Kohút.
Nelle fasi più acute dello sterminio ad Auschwitz, Kohút era stata selezionata insieme a sua sorella Katka e ad altre ventitré giovani prigioniere, quasi tutte ebree slovacche, per disegnare, tagliare e cucire abiti destinati alle mogli dei comandanti del campo e ad altre donne dell’élite nazista di Berlino. Alcune internate avevano infatti lavorato come sarte in rinomati atelier a Praga, Bratislava e in altre città dell’Europa orientale prima dell’inizio della guerra. Le loro abilità furono sfruttate nel Laboratorio di alta sartoria (Obere Nähstube), un atelier ideato e aperto nel seminterrato degli uffici amministrativi delle SS da Hedwig Höss, moglie dell’ufficiale nazista e comandante del campo Rudolf Höss.
La storia di Berta Kohút e delle altre prigioniere che si salvarono dallo sterminio lavorando nel laboratorio di sartoria è raccontata nel secondo libro di Adlington, “Le sarte di Auschwitz”, che testimonia le condizioni di vita e di lavoro delle sarte. Rispetto ad altre prigioniere, erano privilegiate: poterono evitare i lavori più duri sfruttando il loro talento, e il loro posto per dormire era relativamente meno sporco rispetto ad altri.
La manodopera delle sarte era molto apprezzata dalle mogli e compagne dei vari comandanti. Ma si verificò una situazione alquanto surreale e contraddittoria: quando gli abiti erano pronti, i nazisti vietavano alle stesse persone che li avevano confezionati di toccarli, considerandole esseri inferiori come ogni altro prigioniero.
Per approfondire la storia di Berta Kohút e delle altre sarte di Auschwitz, consigliamo la lettura di “Le sarte di Auschwitz“, un libro veramente coinvolgente.
Fonte: Il Post, lunedì 27 gennaio 2025